I legislatori della nostra Carta Costituzionale, dimostrando elevata sensibilità e lungimiranza, focalizzarono l’importanza del lavoro (e quindi dei lavoratori) ai fini di un corretto ed armonico sviluppo della società Italiana. Ma, l’opinione pubblica dell’epoca, non era ancora molto sensibile a tematiche quali la prevenzione degli infortuni negli ambienti di lavoro.
Ovviamente, i tempi mutano, e lentamente si è raggiunta una consapevolezza ed un bisogno che esulava dal classico rapporto lavorativo, finora visto come limitato all’orario di lavoro, ai riposi concessi, alla retribuzione.
Senza addentrarmi nella terminologia prettamente giuridica sulla definizione del lavoro, è mia intenzione esporre storicamente i vari approcci seguiti dagli psicologi del lavoro per analizzare, e quindi prevenire, gli infortuni sul lavoro. Ovviamente, essendo un campo di indagine vasto ed in continua evoluzione, ho cercato di sintetizzare, senza per questo tralasciare, un aspetto che per lo scrivente è fondamentale: la chiarezza espositiva, fondamentale per inquadrare il problema nel suo insieme.
Dal punto di vista etimologico, il termine “Lavoro” deriva dal latino Labor, che indicava fatica, sforzo, pena.
I nostri cugini d’oltralpe, con il termine labeur (del XII° secolo), indicavano le attività agricole (notoriamente faticose), anche se il termine Travail, che si affermò nel XVII° secolo, fu italianizzato in Travagliare, designando comunque un lavoro duro e faticoso. Gli spagnoli non sono da meno, poiché il termine Trabajo significava originariamente il travaglio, ovvero i dolori che accompagnano la partoriente.
Da questa sommaria indagine etimologica, si evince un significato arcaico del lavoro che pone in evidenza la sofferenza e la fatica come parte integrante dell’attività lavorativa.
E’ evidente che nella nostra società, tale visione è ormai fuori luogo, poiché l’utilizzo di macchine sempre più sofisticate ha permesso di delegare ad esse una parte consistente dello sforzo fisico necessario all’esecuzione di un compito. Ma, nel contempo, tale riduzione dell’esercizio fisico non ha eliminato un aspetto importante dell’attività lavorativa: L’infortunio sul lavoro.
Tale problematica è, per lo psicologo del lavoro, oggetto di studio partendo dal presupposto che è necessario investigare i requisiti per un’armonica integrazione tra l’uomo ed il suo lavoro, affinché si possa giungere sia ad un miglioramento dello status quo, che alla prevenzione di eventi potenzialmente pericolosi.
Tale visione, ha insita una difficoltà: la sua analisi esige inderogabilmente un approccio multidisciplinare che interessa vari settori scientifici, come la medicina, la sociologia, la psicologia, l’economia, ecc.
Alla luce di ciò, è lapalissiano che a tutt’oggi vi siano poche teorie che analizzino il fenomeno dell’infortunio in un’ottica globale, delle quali nessuna assurge a scapito delle altre.
Per questo mi propongo di esporre un excursus storico, utile sia ad inquadrare le varie teorie, che per favorire nel lettore una analisi critica.
Tale visione contempla due fattori: il Tecnico e l’Umano.
Sono entrambi importanti, anche se ovviamente il fattore umano si scinde al suo interno in sottogruppi che analizzeremo più nel dettaglio. Per quanto riguarda il Fattore Tecnico, ai primordi della società industriale, l’incidente lavorativo era visto come un evento “semplice”, ovvero una causa, un movente preponderante rispetto al contesto. Questa visione era il frutto del meccanismo industriale, il quale ancora pargolo, non valutava in modo adeguato (e quindi non controllava) i rischi connessi ai modi di produzione, che erano privi delle elementari norme di sicurezza. Col passar del tempo, ci si avvide di ciò, ma è importante considerare il contesto sociale in cui ci muoviamo. Bisogna tener presente che all’epoca della rivoluzione industriale (ma esistono ancora echi di tale visione ai nostri giorni), era in auge una visione stereotipata della realtà che posso definire “Relazione Lineare”, la quale si può sintetizzare nel postulato: “la variabile A si è modificata grazie all’intervento della variabile B ottenendo il risultato C, altrimenti, se fosse intervenuta la variabile D si sarebbe ottenuto il risultato E. In altri termini, si cercava sempre e comunque di evidenziare una relazione “causa-effetto”. Ligi alla cultura imperante nel periodo (fine ‘800), si optava per un determinismo riduttivo, ma al tempo stesso rassicurante per le coscienze dell’epoca.
Anche dal punto di vista legale, si tendeva a determinare la causa e la natura dell’evento patogeno.
Grazie, però, a delle menti illuminate, che vedevano oltre la dicotomia causa-effetto, ci si rese conto che l’incidente non poteva sintetizzarsi nella fredda analisi tecnica. Ciò fu possibile anche grazie al mutamento della cultura imperante, che faceva proprie, assimilandole, le scoperte relative alle scienze umane. Ciò provocò uno spostamento del focus d’analisi dalla macchina al lavoratore. La rivalutazione dell’uomo come oggetto d’analisi, condizionò in modo notevole le ricerche sulle cause degli incidenti sul lavoro, cercando di porre in evidenza la relazione tra le caratteristiche psicofisiologiche del lavoratore ed il sinistro occorsogli. Come non ricordare al riguardo l’opera di S. De Sanctis, G.C. Ferrari, Benussi, Padre A. Gemelli, i quali, direttamente o indirettamente contribuirono alla prima rivista italiana di psicologia del lavoro: “Rivista di Psicologia”, come all’importante XII^ Conferenza Internazionale del Lavoro del 1928.
Quest’enorme mole di ricerche, quindi, porta all’analisi del Fattore Umano, ovvero l’analisi della variabile “Individuo” in occasione di eventi patologici. Tutte le ricerche condotte in tale ottica hanno rilevato una caratteristica intrinseca di alcuni soggetti: “La Predisposizione agli Incidenti”.
Furono Greenwood e Woods , che ipotizzarono fin dal 1919, una “Tendenza iniziale disuguale agli incidenti”.
Tale ipotesi, dopo accurate verifiche, assunse al ruolo di teoria, prendendo il nome di “Teoria della Predisposizione agli Incidenti”. Ovviamente, non tutti gli studiosi hanno abbracciato questa “interpretazione di elevato valore”, ma ciò non toglie che la teoria della predisposizione è presente nelle opere che evidenziano l’effetto patogeno di variabili (come ad es. sesso, quoziente intellettivo, anni di anzianità, tratti di personalità), sul potenziale infortunistico. E’ evidente che tale valutazione delle caratteristiche individuali ha comportato un fiorire di ricerche che esploravano l’influenza di variabili quali:
1) Quoziente Intellettivo (Q.I.); 2) Comportamenti nei confronti del rischio; 3) I fattori inconsci (approccio psicoanalitico).
Le ricerche effettuate basandosi sul “Q.I.”, come fattore discriminante, hanno condotto a risultati deludenti, anche perchè veniva utilizzata una soglia discriminativa molto bassa. Personalmente, ritengo tali ricerche limitative, perchè non tengono in alcun conto le potenzialità di un individuo, che sono totalmente svincolate dal grado di intelligenza posseduto.
Per quanto riguarda il “Comportamento nei Confronti del Rischio”, molti autori hanno ritenuto che la conoscenza degli atteggiamenti in un determinato momento, permettesse di pronosticare i comportamenti non consoni alla salute del lavoratore.
Una famosa ricerca condotta da Feldheim e Cazamian, giunse alla stessa conclusione di Cesa Bianchi che afferma “una sovrastima del pericolo del lavoro non porta necessariamente ad un’osservanza più stretta delle regole sull’impiego dei mezzi di protezione”. In tale ricerca, si rilevò che ben il 61% degli intervistati (erano dei minatori) non portavano le scarpe di sicurezza, pur dichiarandosi favorevoli a tale mezzo di prevenzione. E’ lapalissiano, quindi, riconsiderare il valore delle predizioni del comportamento.
Analizzando i “Fattori Inconsci” (approccio psicoanalitico), gli psicologi del lavoro, partendo dall’assunto di Freud che la personalità non è altro che la sintesi del background storico-esperenziale dell’individuo, considerano l’incidente come una proiezione della situazione lavorativa. In altre parole, gli psicanalisti hanno visto l’incidente come lo sviluppo naturale della tendenza all’autopunizione o come una conversione di aggressività. In altri termini, l’incidente è visto come uno sfogo teso alla risoluzione di conflitti esistenziali personali.
Varie sono state le ricerche condotte al riguardo, e tutte hanno puntato l’indice accusatore ora sull’astio nei confronti della Dirigenza (vista come autorità genitoriale), ora sulla tendenza all’esteriorizzazione della propria aggressività più o meno inconscia.
Tali affermazioni, pur non essendo supportate da una rigorosa metodologia investigativa (secondo le Regole di Popper), fanno risaltare un aspetto fino ad ora poco considerato: i processi psicologici inconsci, che assumono d’ora in poi importanza nel mix di variabili.
Analizzando, alla luce di quanto detto, la problematica relativa gli infortuni, si può affermare che il focus dell’attenzione si è lentamente spostato dalla concezione prettamente “Tecnica” del fenomeno dell’infortunio, alla concezione prettamente “Psicologica” o del fattore umano.
Tale visione allargata ha prodotto sia un ampliamento della sfera riguardante la prevenzione, che lo sviluppo dell’attività di formazione dei lavoratori. Comunque si è assistito, purtroppo, da parte dei sostenitori di tale impostazione, ad una scotomizzazione della realtà, pari a quella dei sostenitori della concezione tecnica. In altre parole, si è ignorato un aspetto importante dell’infortunio: il contesto in cui avviene.
Il trascurare questo aspetto, ha comportato una riduzione del campo da investigare. Infatti, come hanno giustamente rilevato Sass e Crook (1981) “...la nozione di predisposizione, ha avuto l’effetto di accusare le vittime di incidenti sul lavoro, piuttosto che mettere l’accento sul ruolo degli ambienti di lavoro pericolosi, e perciò ha ostacolato lo sviluppo dei principi di prevenzione nell’igiene e nella sicurezza del lavoro.
Tale consapevolezza, ha prodotto una modifica del quadro concettuale, al quale si rifanno le ricerche sugli infortuni dal 1945 in poi.
L’introduzione della concezione multicausale dell’incidente sul lavoro ha comportato una variazione dell’angolo prospettico dal quale osservare il fenomeno, col risultato di rivoluzionare letteralmente gli studi e le ricerche fino ad allora effettuate. Finalmente, si fa strada la consapevolezza che l’incidente sia il prodotto di un’interazione tra lavoratore e le altre variabili della situazione lavorativa, variabili che d’ora in poi assurgono a comprimarie al pari del lavoratore. In tale ottica, prendono corpo dei modelli di spiegazione del fenomeno dell’infortunio sul lavoro gravidi di nuovi sviluppi. In questo articolo prenderò in esame i tre studi che si possono considerare, secondo lo scrivente, i più rappresentativi nell’ambito dello studio degli incidenti lavorativi.
L’ideatore di tale approccio è Heinrich, il quale afferma che (in Levy-Leboyer, Sperandio): “Una ferita evitabile è la conclusione naturale di una successione di eventi o di circostanze che si svolgono invariabilmente in un ordine fisso e logico. L’uomo dipende dall’altro e lo segue, costituendo in tal modo una sequenza che può essere paragonata ad una fila di tessere di domino collocate verticalmente, allineate ed unite le une alle altre in modo tale che la caduta della prima provoca la caduta dell’intera fila”.
Secondo Heinrich, si possono identificare cinque diverse tessere di domino, classificabili in ordine sequenziale (Levy-Leboyer, Sperandio, pag. 639):
1) l’eredità e l’ambiente sociale; 2) le incapacità personali; 3)l’atto pericoloso e/o rischio materiale; 4) l’evento accidentale; 5) la lesione o ferita.
E’ evidente, che focalizzando l’interesse sulla sequenza causale, si possa svolgere attività di prevenzione sulle cause indicate dal punto 1 a 4. Un determinismo causale, quindi, che spinge lo psicologo del lavoro alla ricerca delle cause patogene.
Purtroppo, come tutte le teorie collegate al determinismo, non è così semplice come sembra. Infatti, spesso i vincoli esistenti tra certi tratti di personalità e relativi comportamenti sono flebili, o meglio, come afferma Zurfluh:
“i fattori di infortunio si presentano certamente in ordine logico, ma non in un ordine fisso e lineare”.
L’ideatore di tale approccio è stato Raymond, il quale valorizza la tesi che vi è un concatenamento tra fattori tecnici e fattori umani, o in altri termini: “In ogni infortunio interviene in parte una causa materiale, ed in parte un soggetto che possiamo definire come la vittima dell’incidente. Affinché l’incidente abbia luogo, c’è bisogno di una congiunzione tra le due summenzionate parti, ovvero che venga messa in gioco una “forza”. La stragrande maggioranza delle volte, questa forza è un movimento della vittima, un movimento che possiamo definire evento nefasto, dovuto a scarso controllo (o abitudine, aggiungo)”(in Levy-Leboyer, Sperandio, pag. 640). Questo modello, offre un doppio campo di indagine relativamente agli studi sugli incidenti lavorativi, poiché: 1) assume importanza l’analisi sofisticata del lavoro in oggetto, per poter appurare i gesti cosiddetti normali, da quelli patogeni (causa di incidenti). C’è da rilevare che tale modello non è un salto indietro nel tempo, ovvero la rivalutazione del “Fattore Umano”. 2) L’analisi dell’incidente, frutto di un intersecamento di variabili umane e tecniche, presuppone dei modelli di incidente più articolati e complessi rispetto al modello di Heinrich. Il neo del modello di Raymond, è la mancata integrazione degli aspetti psico-sociologici.
3) L’incidente come: “Sintomo di perturbazioni nel gruppo di lavoro”.
Gli aspetti psico-sociologici, trascurati dal modello di Raymond, sono il fulcro del modello che andiamo brevemente ad analizzare, ideato dalla Tavistock Clinic e dalla Scuola Sociometrica.
Secondo Ancelin e Schutzenberger, “la coesione del gruppo e la sicurezza sul lavoro sono legate”. Varie ricerche condotte da Hill e Trist, e successivamente verificate da altri studiosi, hanno rilevato un vincolo tra le assenze non giustificate dei lavoratori, e gli infortuni sul lavoro. Per questi autori, l’incidente è un segnale di tensione tra la struttura produttiva (es. Fabbrica, Ente, ecc.) ed il lavoratore. L’incidente, quindi, è visto dal lavoratore come una sorta di “giustificazione”, uno strumento per svincolarsi dall’ambiente di lavoro, permettendo nel contempo il mantenimento di una relazione tutto sommato accettabile col datore di lavoro.
Altri autori come Speroff e Kerr, rifacendosi ai lavori di Moreno (impostazione Sociometrica) hanno rilevato una correlazione tra status sociometrico (posizione del lavoratore all’interno del gruppo di lavoro) e frequenza degli incidenti. Dai loro studi si è rilevata una correlazione tra l’incidente subito da un lavoratore, ed i colleghi presenti, con i quali non si preferiva lavorare. In altri termini, che subiva più incidenti, era colui che veniva isolato dal gruppo in cui lavorava, mentre viceversa, i lavoratori più “popolari” o meglio ben accetti all’interno del gruppo di lavoro, subivano meno incidenti. Tali studi, hanno come neo di non spiegare il nesso causale tra il sintomo constatato (difficoltà in seno al gruppo di lavoro), ed il fattore incidente, anche se il loro maggior merito è quello di aver aperto le porte a nuovi campi di indagine. Tale excursus storico, ha il pregio di aver evidenziato delle ipotesi, e quindi dei modelli, fautori di nuovi sviluppi di ricerca.
Da quanto si è rilevato, tutte queste concezioni considerano l’incidente lavorativo come una disfunzione tecnica o umana, e non come una summa di fattori in un’ottica globale. Al riguardo è interessante rilevare che un passo avanti in quest’ultima direzione è stato compiuto della teoria definita “Metodo pratico di ricerca dei fattori di incidente” descritta da Krawsky, Cuny, Monteau nel 1972. Al riguardo, Cazamian, la situa in un panorama in cui “L’azione di sicurezza ricercata nell’ambiente industriale si definisce come un intervento correttore dell’impresa sulla propria organizzazione per diminuire i rischi di infortuni sul lavoro”.
L’interesse verso questa concezione nasce dal focus d’indagine che verte sullo studio del caso particolare, e non più sulla fredda analisi statistica compiuta sulla globalità degli incidenti. Come affermano Monteau e Pham:
“L’analisi dell’infortunio consiste nel confrontare la situazione di lavoro che ha dato luogo a un incidente con quella che si sarebbe dovuta osservare se l’infortunio non fosse accaduto.” In altri termini, la situazione di incidente viene comparata con analoga situazione scevra di incidente. Una sorta di esperimento scientifico, in cui si assume una variabile dipendente ed una indipendente, la cui manipolazione, purtroppo ha già sortito i suoi risultati. Ovviamente, il riferimento ad una determinata situazione è una condizione imprescindibile, anche se tale metro di paragone viaria a seconda dell’esaminatore. Per supportare l’opera di quest’ultimo, Kjellen, formula quattro tipi essenziali di “Variazione” in relazione al riferimento utilizzato, e precisamente:
- Il regolamento: viene utilizzato come metro di paragone la normativa regolamentare (es. ordini di servizio, circolari, fogli disposizioni) vigente all’interno dell’organizzazione che si sta esaminando;
- le regole dell’arte: viene utilizzato come metro di paragone la regola legislativa del buon padre di famiglia;
- l’usanza: viene utilizzato come metro di paragone l’uso consolidato delle azioni, delle procedure normalmente utilizzate per realizzare quel determinato compito:
- il previsto, il pianificato: viene utilizzato come metro di paragone la summa delle azioni programmate a posteriori, e descritte minuziosamente ai lavoratori mediante corsi di formazione o specializzazione.
Come affermano Monteau e Pham (pag. 646): “L’analisi dell’incidente consiste quindi nel ricostituire questo processo infortunistico, individuando non solo i fattori dell’incidente, ma anche i loro legami logici (concatenamento, disgiunzione, congiunzione), mediante l’uso dell’algebra di Boole”.
Appare logico che in tale contesto, i fattori da considerare in caso di incidente spaziano dall’operatore, la sua postazione di lavoro, il team in cui è inserito, il superiore da cui dipende e la cultura organizzativa vigente all’interno dell’azienda.
Il metodo summenzionato viene chiamato anche “Albero delle Cause”, a causa della connessione logica dei fattori che possono provocare un incidente. L’uso di tale albero, nell’ambito della sicurezza lavorativa, implica tre tappe (Monteau M., Pham D., pag. 647-648):
1) Messa in evidenza di fattori di incidenti (a posteriori).
Questa prima tappa risponde a due obiettivi:
a - Impedire che succeda lo stesso incidente;
b - Evitare che succedano infortuni più o meno equivalenti, vale a dire incidenti le cui analisi farebbero apparire fattori comuni con incidenti che sono già successi.
Essendo data la struttura logica dell’albero, l’assenza di un solo antecedente avrebbe impedito che avvenisse l’incidente. Una misura di prevenzione giudiziosa basterebbe quindi ad evitare che accadesse di nuovo lo stesso incidente. Tuttavia, il secondo obiettivo può essere raggiunto solo nella misura in cui tutti i fattori scoperti vengono eliminati. In pratica non tutti gli antecedenti hanno lo stesso interesse per la prevenzione.
2) Trattamento quantitativo dei fattori di incidenti.
Quando si dispone di un certo numero di analisi, si può considerare un trattamento quantitativo di questo insieme. Tuttavia, questo modo di procedere suscita molti problemi che sono dovuti, in particolare, all’assenza di metodi che permettono di rendere conto simultaneamente del contenuto degli incidenti (natura dei fattori) e delle loro strutture (interdipendenza dei fattori). Malgrado questo limite, sono stati fatti vari tentativi per giungere ad una rappresentazione di una rete di fattori, come ad esempio Montenau giunge ad una rappresentazione semplificata delle diverse “vie” che hanno portato al ferimento in incidenti accaduti nella miniere di ferro.
L’interesse di queste descrizioni, concernenti i concatenamenti di fattori, sta nelle prospettive razionali che esse aprono alla prevenzione, dando ad ogni fattore il posto e l’importanza realmente occupati nella genesi dell’incidente per un dato stabilimento o per una data officina. Queste descrizioni possono suggerire interventi di prevenzione riguardanti il funzionamento globale del sistema studiato (gestione del personale, scelta dei processi di lavoro, manutenzione del materiale, ecc.). Ovviamente, se le analisi quantitative vengono effettuate periodicamente, diventano dei punti di riferimento che hanno un doppio interesse: ausilio alla formazione di una politica di prevenzione e mezzo per valutare l’evoluzione della sicurezza, anche se le difficoltà evocate sono pari a questo interesse.
3) Analisi a priori dei rischi
Questa terza tappa riguarda la diagnosi precoce dei rischi, prima che accada l’incidente. Come si è visto, l’analisi di ogni infortunio è un’occasione privilegiata per identificare i fattori di incidente. Alcuni hanno un carattere abbastanza generale per essere osservati in altre situazioni di lavoro rispetto a quelle che hanno provocato l’incidente analizzato. Di solito, l’analista considera spontaneamente questa eventualità; è così che se una macchina si è rivelata pericolosa all’uso, sarà oggetto di riadattamenti che verranno estesi alle altre macchine suscettibili di presentare gli stessi pericoli. Così, un fattore di incidente può essere considerato come un’entità reperibile in situazioni di lavoro dove non è ancora accaduto: si parla allora di “fattore potenziale di incidenti” (FPI). Si noti che questo tipo di fattore permette di utilizzare a priori informazioni individuate a posteriori (in occasione di analisi d’incidenti).
Indubbiamente, questo metodo ha un suo fascino, quasi pari a quello che si prova leggendo le regole della termodinamica, poiché sembrano rispondere al criterio più ricercato nella redazione di ogni teoria: la semplicità. Ma, pur riconoscendogli un certo “charme”, ricordo che per affrontare il problema della sicurezza in ambito lavorativo è indispensabile tener conto della globalità delle condizioni operative, come ho già affermato precedentemente. Quindi, solo considerando nel loro giusto peso variabili del tipo cultura organizzativa, tipo di leadership, ecc., permette IL cambiamento auspicato. Mi rendo conto che il Responsabile alla sicurezza deve svolgere a volte un compito quasi pari ad una fatica d’Ercole, ma tale incarico permette di esternare al massimo tutte le potenzialità creative ed intellettuali di un individuo, con ampie ricadute sia sul piano motivazionale che di realizzazione individuale. Non si deve pertanto focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’approntamento di una strumentazione atta al rilevamento dei rischi (e relativa valutazione), ma bisogna seguire e sviluppare una politica di interventi consoni all’ottenimento dell’obiettivo primario: La Sicurezza. Come afferma Vedovato: “Perseguire quindi una politica efficace nel campo della prevenzione significa superare un modo di operare basato prevalentemente su interventi sporadici e limitati nel tempo, diretti a risolvere i problemi man mano che si presentano, adottando invece un metodo di intervento fondato su un criterio di sistemicità, attraverso l’elaborazione di una serie di strumenti che permettano di mantenere e migliorare nel tempo i risultati previsti”.
Questo deve essere il nostro modus operandi, affinché il nostro operato sia incisivo al massimo. Scopo di questo libro non è ovviamente una mera elencazione di tutte le variabili che entrano in gioco, poiché sarebbe utopistico ed anche inutile visto che ogni realtà aziendale è diversa l’una dall’altra, però è mia intenzione rilevare, valutare e proporre dei punti di riferimento sempre presenti in ogni contesto organizzativo. Abbiamo già visto nei precedenti capitoli alcuni di questi punti ma (come ogni lettore se ne sarà accorto), erano incentrati sul rapporto Impresa-Dipendente. E’ opportuno, quindi, analizzare ora il “deus ex machina” (è proprio il caso di usare questa espressione), l’artefice di tutta la problematica: il lavoratore.
E’ forse l’aspetto più attraente, ma sicuramente il più difficile da compiere vista l’estrema eterogeneità, il variegato mix di variabili che tale analisi comporta. Tale complessità a prima vista confonde, disorienta, ma chi scrive non ha intenzione di redigere un trattato sulla personalità del lavoratore, bensì esaminare i principali aspetti comportamentali, motivazionali e cognitivi che intervengono in ambito lavorativo. Invito tutti i lettori ad usare tale analisi in modo propedeutico, arricchendole con il proprio vissuto ed esperienza, alla luce del contesto operativo in cui si trovano.